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7 ANNI CON IL PORTINAIO (The book is on the table)

La mia età sul web mi permette ancora di dire e fare cazzate. Praticamente è come se facessi la seconda elementare.
Voglio festeggiare con voi i miei 7 anni con una storiella.
E’ tratta dal mio libro. Riuscirò a terminarlo quando i miei parenti smetteranno di morire o di ammalarsi. 😛
Buona lettura e tanti auguri!!!

 

La signora Morimoto Keiko è nata in una piccola città nella prefettura di Saitama.
La sua età è indefinibile. Il sabato dimostra appena quarant’anni e il lunedì sessanta.
E’ figlia unica.
Suo padre aveva un piccolo negozio nella stazione. Era una specie di drogheria, vendeva di tutto: ombrelli, sale, grasso per pulire le scarpe e persino i dolcetti con i fagioli rossi. E’ morto presto, lasciando sua moglie e la piccola Keiko in balia del dopo guerra.
Ma il Giappone, come racconta la storia, si risollevò economicamente quasi subito.
La madre di Keiko vendette il negozietto e si risposò quasi subito con un impiegato di banca. Riuscì così a fare una vita abbastanza agiata e permettersi una casa più grande.
Ma la bambina non era felice e non capiva perchè la madre avesse dimenticato il papà.
All’età di vent’anni Keiko diventò una ribelle, invece di restare a casa a cucinare preferiva uscire con i ragazzi. Non era ben vista in paese.
Sua madre non aveva pace. Le scelse un fidanzato, perché credeva che solo così avrebbe potuto fermare il suo carattere lascivo. Ma il giorno dell’ Omiai (colloquio formale a scopo matrimoniale) si fece venire un aneurisma cerebrale, lasciando la povera Keiko orfana.
Il patrigno non ci mise molto a svignarsela con i soldi e l’unico modo per Keiko di sopravvivere era sposare a 21 anni quel ragazzo con i denti grossi che rispondeva al nome di Gennosuke Matsumoto: un neo laureato in architettura che non riusciva ad avere rapporti con l’altro sesso perché pare avesse un alito mortale e quel cazzo di sorriso da ebete.
Keiko lasciò gli studi e senza neanche rendersene conto si ritrovò vestita di bianco. Non c’era sua madre a prepararla il giorno del matrimonio. C’era la zia, che prima di darla in pasto alla famiglia del marito le disse:

“Non permettere mai a nessuno di farti schiacciare, non cadere mai ai suoi piedi, metti al mondo dei figli perché sono gli unici che ti ameranno incondizionatamente e quando saranno grandi abbastanza per camminare da soli…fuggi”.

La zia di Keiko aveva ereditato qualche gruzzoletto alla morte del marito e dopo il matrimonio della nipote scappò negli Stati Uniti insieme a un marines conosciuto a Okinawa.

Keiko era veramente sola.
Cioè c’erano le cugine, ma se in Italia le vedi solo ai matrimoni e ai funerali, in Giappone praticamente è come se non esistessero.
Quando faceva l’amore con il marito girava la testa dall’altra parte. Lui non se ne accorgeva, perchè era già una fortuna accoppiarsi e quando accadeva preferiva concentrarsi su se stesso.
Mariko è nata per prima, l’anno dopo arrivò quello scemo di suo fratello Junichiro e per ultima la piccola Ayumi. Piccola perchè era veramente bassa.
Keiko aveva preso alla lettera la zia, ma non aveva mai avuto il coraggio di andarsene.
I suoi sentimenti rimasero congelati fino alla nascita della primogenita. L’ultimo rapporto sessuale avuto fu per il concepimento di Ayumi. Poi fu messo tutto sotto formalina, cuore, cervello e passera.
Non ci mise molto a capire che suo marito la tradiva. Costantemente.
Ma in Giappone si usa così. Lei sa, che io so, che noi sappiamo. Basta che davanti agli altri risultassero una famiglia perfetta.
Gennosuke decise di trasferirsi a Tokyo negli anni della grande bolla, perché aveva trovato lavoro in uno studio di architettura. Era il 1987, Mariko aveva dieci anni e ricorda solo che riceveva una bambola alla settimana. Suo padre prendeva percentuali speculando sulla vendita degli immobili che all’epoca avevano prezzi stratosferici.
La signora Keiko aveva dieci pellicce e un rubino vero.
Ma non era felice, perché a farle compagnia c’erano solo i tre figli e dei visoni morti.
Non aveva molte amiche, della zia si erano perse le tracce e non era più tornata sulla tomba dei suoi genitori.
Le piaceva curare il giardino. Chiese al marito di farle costruire un piccolo laghetto con le carpe Koi e di avere un ciliegio.
In primavera portava i figli sotto l’albero, facevano merenda con i mochi ripieni di azuki e sperava di morire improvvisamente come sua madre.
Non contenta sognava anche che i suoi figli affogassero nel laghetto e di reincarnarsi in un sasso solo per vedere suo marito contorcersi nel dolore. Ma poi sapeva che a lui non sarebbe importato molto se non del figlio maschio che stava venendo su tale e quale a lui, tranne per i denti, che fortunatamente erano dritti, a parte per quel canino destro sovrapposto sull’incisivo laterale.
Keiko era il bene e il male insieme, lo ying e lo yang.
Non voleva che i suoi figli soffrissero.
Non voleva veramente morire, ma se fosse accaduto avrebbe preferito qualcosa di catastrofico, tipo durante un terremoto o un incidente ferroviario.
Non sopportava l’idea di lasciare i suoi figli con quell’inutile uomo.  Per lui provava un sentimento di rispetto, ma solo per la carriera che aveva fatto. Non c’erano sorrisi nella sua vita.
Nonostante conducessero una vita da borghesi non erano mai usciti dall’Asia. Tranne una volta. Nel 1988 andarono alle Hawaii, perchè il padre era fan di Magnum P.I. ma nessuno apprezzò quella vacanza esotica. Cinque giorni di pioggia e di centri commerciali.
Ogni anno, durante la Golden Week,  andavano a Fukuoka, dal fratello di Gennosuke che aveva un ristorante di ramen e pare fosse una bravissima persona. Mariko lo ricorda come lo zio grasso che faceva sempre le facce buffe per farla ridere.
Non aveva avuto figli e i tre nipoti erano i suoi “adorati piccolini”, così li chiamava.
Quando ha saputo che Mariko si era sposata con me: straniero, italiano, senza lavoro, senza cerimonia, invito e abito nuziale,  aveva affilato tutti i coltelli e continuava a mandare mail con scritto “Quando vieni a trovarmi con tuo marito gaijin?”.
Keiko invece fu inondata da un senso di colpa. Il suo mestiere di madre aveva fallito, non era riuscita a trovare nessun uomo adatto alla figlia. Lo sapeva che non doveva mandarla in Europa dove sono tutti maniaci e con il naso grosso.
Ci aveva provato presentandole un certo Akihiro, il suo nome significava “Immensa gloria”, peccato si buttò sotto una metro il giorno del suo ventiduesimo compleanno perché era pressato dalla famiglia ad essere il numero uno in tutte le materie universitarie.
Daisuke, che il suo nome significava “Grande aiutante”, piuttosto che fidanzarsi preferì partire con una Onlus in Africa per aiutare i bambini orfani.
Gli ideogrammi di Hiroaki invece significavano “Luminosità diffusa”. Per mesi Mariko aspettò un bacio da lui, ma quello amava farsi i colpi di meches ai capelli e parlare di acconciature. Ora fa il parrucchiere a Nagoya insieme a un francese. Il loro centro di bellezza si chiama “Riccioli rosa”.
Keiko pensava che sua figlia avesse una maledizione, la portò pure al tempio a pescare quelle cavolo di pergamene e tutte le volte la solita sorte in amore: ”Sarai sfortunata”. Peccato che a scegliere la pergamena fosse sempre Keiko.
Nel 2000 Mariko si laureò alla Gedai, l’Università nazionale di arte e musica di Tokyo, con una specializzazione in conservazione del patrimonio nazionale.
Lei voleva solo un regalo: un viaggio in Italia, perché amava la storia dell’impero romano.

…continua

Il Portinaio

 

 

2 commenti

  • ennio

    Bravo complimenti! Io ne ho già scritti 3 e un quarto è in lavorazione da tempo. Scrivere significa mettersi a nudo, spogliarsi di tutte quelle regole e preconcetti che ti sanno coprire più di un eschimese. Nemmeno il nonno di Haedi era così vestito in alta montagna. Eppure, siamo sempre più coperti e rivestiti di un abito che va oltre al caldo e soffice tepore della pelliccia rubata dalla pelle di qualsiasi animale. Siamo rivestiti d’ ipocrisia, falsità e pienezza di noi stessi. Abiti che nemmeno la Caritas vorrebbe nei loro contenitori giallo taxi. Abiti che ci rendono pigri e monotoni, invisibili in questo giardino zoologico defifinto SOCETA’….del cazzo ma di SOCETA’ sempre si tratta. Le storie che essa ci racconta, sono sempre le stesse, un film sbiadito, non certo a colori. Nessuna originalità, nessuna innovazione nella stesura di nuove avventure e copioni d’autore…..piattismo nell’osare e nel cerare qualcosa che veramente ti entusiasmi. Ne colpi di scena, ne fantasie o immaginazioni di nuovi scenari……le solite pallose e pelose palle. Un tiri tera che non potrbbe nemmeno competere con il più allegro ritornello di Orietta Berti…tipiti dove vai…tipiti con chi sei, ha ancora la sua magia. Se una vecchia pubblicità diceva: C’è baruffa nell’aria, di questo vecchio profumo non è rimasto nulla, nemmeno la vuota boccetta ma, solamente un pesante e generico odore di vecchio; un odore di una libreria emozionale che sa di chiuso dove nemmeno i topi, ormai, non si ritrovano più. Ben venga una ventata di eccitante diversità, di folgorante originalità …. idee e parole nuove vanno riscritte per dare vitalità e nuovo inchiostro al calamaio che c’è dentro di noi. Osare fa scalpore….osare significa vivere….parola di 007…licenza di uccidere tutto quello che è statico e non dinamico !!!! Se nessuno di noi non può esistere ed essere nella sua originale totalità, nulla di nuovo accadrà. Meditate gente…meditate!!!!

  • Alan

    E quindi stai scrivendo un libro… auguri allora. Anche io avrei simili velleità ma temo di essere troppo pigro per avventurarmi oltre un ipotetico secondo capitolo. Chi vivrà vedrà.

    Intanto complimenti per il traguardo raggiunto. Niente crisi del settimo anno? Speriamo di no 😉

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