sakura
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IL BIGLIETTINO DELLA PRIMAVERA

Remixa quello che hai scritto. Racconta una storia e aspetta il 21 Marzo. Un inedito dal mio hardware.

Ci sono bigliettini ovunque.
Attaccati sui pensili, sugli interruttori, persino sui cestini della spazzatura. Sono a forma di nuvola, con un arcobaleno disegnato sull’angolo in alto a destra e un orsetto che surfa tra il blu e l’indaco.
Sono scritti in due lingue, perché dice che così imparo.

“Accendi la luce qui, attento a non far partire l’allarme antincendio, qua va la spazzatura – burnable – come la chiamate voi? Questa è acqua, questo invece è tè verde”

Sulla scarpiera all’ingresso invece ho trovato una letterina, questa volta scritta su un foglio giallo paglierino.

“Se hai bisogno di qualcosa c’è un supermercato qui vicino, ti ho disegnato la mappa per raggiungerlo. Spero tu non abbia spaventato la vicina. Lei è molto timorosa, dovremo farle un regalo per averla disturbata. Ti ha lasciato anche le chiavi della posta? Ci vediamo stasera. Ben arrivato”.

Io non lo so se ho fatto bene a venire qui. Però ero così stanco, lei mi ha convinto con due parole, poi me le ha tradotte, perché non avevo capito.
Sono atterrato alle dieci del mattino, sono arrivato a casa sua alle tre del pomeriggio. Ero solo. Mi sono lavato e poi mi sono addormentato sul divano. Mi ricordo questo, era l’altro ieri.

Qui tutto dormono appena possono.
Devo capire com’è il quartiere, devo saziare la mia abitudine. Se imparo quattro parole posso già fare la spesa, però non so leggere e questo mi crea un terribile mal di testa.
Oggi ho assaggiato un biscotto, me l’ha offerto una signorina molto gentile fuori da una specie gastronomia. Era salato, sapeva di gamberetto. Mi è rimasto quel gusto in bocca per ore. Allora ho comprato una bibita alle macchinette, pensavo fosse tè alla pesca, invece aveva un gusto sconosciuto.
Non è possibile. Mi sono sentito smarrito. Non potrò mai abituarmi a questa cosa.
Perché sono finito qui? Potevo rimanere nella mia città, dove il tram arriva in ritardo, dove il treno arriva in ritardo, dove la gente è sempre nervosa. Potevo rimanere con il mio lavoretto part-time. Agli altri ho detto che l’ho fatto per amore.
Qui tutti mangiano appena possono. E dicono “che buono”, anche quando non è poi così buono.
Ci sono ristoranti aperti tutta la notte. Ho visto impiegati ingolfarsi di riso e carne alle sette del mattino. Vorrei il latte con i biscotti.
Anche a lavarmi sono impacciato.
I bigliettini in bagno dicono: “Ricordati di schiacciare questo pulsante per l’acqua calda, il dentifricio è questo, non confonderlo con lo smacchiatore. La lavatrice funziona, devi premere il primo tasto a sinistra, poi aspettare che si accenda la luce verde, attendere tre secondi e ripremere il tasto a sinistra. Vedrai che quando imparerai a leggere sarà tutto più facile”.
Che carina, cerca sempre di convincermi che ho fatto bene, che sarà una nuova vita. Basta imparare.
Quando le ho detto voglio dormire con te, ha fatto una faccia brutta, perché da loro non è una richiesta romantica. Allora mi ha insegnato. Fai un inchino e domanda senza essere troppo diretto. Non ho capito un granché.
Comunque dormiamo per terra, non molto vicini, come si chiamano questi letti? Non mi ricordo mai.
Sua madre non è contenta, non mi ha guardato nemmeno in faccia quando si è presentata. Suo padre non l’ho ancora visto.
Lei però dice che sta bene con me, perché la faccio ridere, capisce le mie battute, parla così bene. Io non so come esprimere certe emozioni e allora tendo a semplificare tutto. I miei verbi diventano infinito presente. Andare, mangiare, dormire.
Non ho trovato lavoro.
Qui lavorano tutti. Non sembra ci sia la crisi.

Io non posso fare niente, tranne il lavapiatti, ma lei mi ha detto “Vedrai che quando imparerai a parlare troverai qualcosa di bello per te”. Facile, non ci avevo pensato.
Però dice che la faccio ridere, dice che non ha mai trovato una persona così, che il suo ex marito non la sfiorava perché non gli piaceva fare sesso, mentre io cerco sempre il contatto, anche quando parliamo, le tengo la mano, perché ho paura di perdermi.
Mi ha portato sotto un albero a fare un pic-nic, qui lo chiamano in un altro modo. Non mi ricordo come si dice, ma la parola assomiglia ad “amami” e mi piace.
Io associo le parole.
E’ bello fare “amami”, anzi non è vero. E’ scomodo. Poi non eravamo soli, c’erano orde di persone, compagnie di ragazzi, colleghi di lavoro, c’era persino la televisione che ci riprendeva. La gente era ubriaca, urlava, mangiava, sembravano degli animali.
Per un attimo ho smesso di fissarli e ho alzato lo sguardo. L’albero perdeva all’infinito i petali dai suoi fiori. Era ipnosi.
Ricordo che avevo visto un film che raccontava la storia di due persone che non si dimenticano nonostante la distanza, s’intitola “Cinque centimetri al secondo” ovvero la velocità con cui i petali di ciliegio cadono al suolo.
Era un bellissimo film. Desideravo vivere una storia così.
Poi lo sguardo è tornato sul mio vicino che ballava vestito da draghetto e tutta la poesia si è arricciata come spesso succede ai petali.

“Assomigliano agli Yukimushi. Conosci gli Yukimushi?”

Lei deve aver capito che mi ero perso guardando il palmo della mano. Mi ha richiamato alla realtà.

“Non lo so. È una parola che devo imparare?”
“Sono insetti bellissimi. Assomigliano a dei fiocchi di neve. Vivono al nord e con il contatto del calore umano rischiano di morire. Si lasciano trasportare dal vento e il loro ondeggiare assomiglia a un petalo”

Che belle parole.

Qui nessuno lascia traccia. Nessuno marca il territorio. Manco i cani pisciano.
Milioni di persone attraversano una strada, ma è come se non ci passasse nessuno. Sono bravissimi a scansarsi. Non si sfiorano neanche.
Prendersi per mano è un gesto quasi rivoluzionario. Baciarsi poi.
Io cerco sempre la sua mano, ma lei non la stringe, ha paura di essere notata.
Siccome non so parlare, ascolto.
Una mia amica inglese aveva imparato l’italiano leggendo i Diabolik, ma io non so leggere questi ideogrammi, quindi ascolto.
I rumori hanno qualcosa di famigliare. Le parole della città si sovrappongono, sono incomprensibili, si mischiano al gracchiare dei corvi, al segnale acustico dei semafori, alle urla delle ragazze fuori dai negozi, che sicuramente sponsorizzano qualche prodotto, ma io non capisco. Al tramonto le cicale piangono e stranamente mi ricordano i pomeriggi a casa di mia nonna, anche il rumore del passaggio a livello mi commuove.
Però non riesco a decifrare questa sensazione. È come quando aspettavo mio padre fuori da scuola, sapevo che sarebbe arrivato, ma avevo paura. Ecco.

Io dipendo da lei e sopravvivo solo perché la faccio ridere. E questo mi tormenta. Devo imparare a parlare.
Lei mi ha detto di fare come il suo fratellino che per un anno ha scritto tutti i giorno lo stesso biglietto perché non riusciva a ricordarsi una parola. Diceva più o meno: Ti voglio un mondo di bene senza nemmeno lasciare una viuzza”
E abbiamo iniziato a ridere.

Il Portinaio

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